Non c'è nessuno cavaliere o barone,
che amaramente non piaga di dolore:
piangono i figli, i fratelli, i nipoti,
e i loro amici, e i fedeli signori;
e i più per terra svenuti s'abbandonano.
Il duca Namo si comporta da prode:
primo fra tutti dice all'imperatore:
"Laggiù guardate, due leghe innanzi a noi:
potete scorgere le strade polverose,
tanta è la gente saracina raccolta!
Via, cavalcate! Vendicate il dolore!"
"Dio!" disse Carlo "così lontani sono!
Acconsentite a me giustizia e onore!
M’hanno strappato della mia Francia il fiore."
Venir fa il re Geboino ed Ottone,
e Teobaldo di Remi con Milone:
"Guardate il campo, guardate valli e monti,
lasciate i morti giacere come sono,
che non li tocchi né bestia né leone,
e non li tocchi scudiero oppur garzone:
io vi comando che nessuno li tocchi,
finché Dio voglia farci fare ritorno".
Quelli rispondono, con dolcezza ed amore:
"Noi lo faremo, sì, giusto imperatore!"
E tengon mille cavalieri dei loro.
L’imperatore fa le trombe suonare,
poi col suo grande esercito cavalca.
Voltato il dorso hanno quelli di Spagna;
e tutti i Franchi dànno insieme la caccia.
Quando il re vede il vespro declinare,
sull’erba verde smonta in mezzo ad un prato,
si stende per terra e incomincia a pregare
perché il Signore faccia il sole fermarsi,
tardar la notte e il giorno prolungarsi.
Ed ecco un angelo che suol con lui parlare
questo comando rapido viene a dargli:
"Carlo, cavalca; la luce non ti manca.
Dio sa che il fiore hai perduto di Francia:
puoi vendicarti della razza malvagia".
L’imperatore allor monta a cavallo.